«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


martedì 27 dicembre 2011

Un Popper postumo su scienza e religione







23 dicembre 2009 (mia recensione pubblicata sul sito dell'UAAR)


Karl R. Popper, Dopo "La società aperta", Introduzione di Dario Antiseri, Armando, Roma, ottobre 2009, 558 pagg., € 39,00, è la traduzione italiana, a cura di L. Coccia e L. Maggi, di After the Open Society. Selected Social and Political Writings/ edited by Jeremy Shearmur and Piers Norris Turner, Routledge, London & New York, 2008. Si tratta di una raccolta di scritti in gran parte inediti su temi che ruotano attorno a quelli trattati ne La società aperta e i suoi nemici (1945), l’opera monumentale e controversa di Popper che costituisce uno dei pilastri della filosofia della politica del XX secolo. Tali scritti, che vanno dal periodo neozelandese (1937-1945) al 1994, anno della morte del filosofo, costituiscono non di rado dei cospicui approfondimenti e ripensamenti rispetto all’opera maggiore di riferimento, e si segnalano anche perché comprendono una parte significativa della corrispondenza di Popper con figure di primo piano come Carnap, von Hayek e Berlin. 
Ma qui vorrei soffermarmi sui due brevi scritti che costituiscono il capitolo 5 (il volume ne ha 48, più una conferenza a Princeton del 1963 sull’epistemologia che funge da introduzione), perché concernono il problema del rapporto tra scienza e credenza religiosa, su cui Popper si è soffermato di rado. Se la memoria non mi inganna, in tutta l’opera edita di Popper tale problema è affrontato solo occasionalmente: su due piedi mi vengono in mente qualche osservazione nel capitolo XXIV dellaSocietà aperta (sul superamento del contrasto scienza/fede, perché la scelta è tra differenti gradi e generi di fede, da quella scientifica nella necessità della ricerca della verità fattuale a quella mistica nel mistero e nell'incomprensibile: di ciò si parla anche nei testi di cui si dirà qui), la Prefazione a L’io e il suo cervello (1977), dove Popper si professa agnostico per chiarire la sua posizione rispetto al credente e premio Nobel John Eccles, coautore dell’opera, alcune battute sulla vecchia questione dell’immortalità dell’anima nel terzo volume della stessa opera e qualche pagina notevolissima del capitolo 11 di Congetture e confutazioni (1963) sul valore logico ed epistemologico dell’asserzione che afferma l’esistenza di Dio. In tal senso acquista un valore particolare il suddetto capitolo 5 di Dopo "La società aperta" (pp. 117-130), che comprende il testo della prima delle quattro conferenze tenute da Popper nel 1940 all’Università di Christchurch (Nuova Zelanda) nell’ambito delle “Extension Lectures”, intitolata “Science and Religion”, e il testo di un’intervista su Dio rilasciata a Edward Zerin nel 1969 e pubblicata per la prima volta solo nel 1998 (su Skeptic, 6, n. 2, pp. 46-49), perché Popper aveva posto la condizione che essa apparisse dopo la sua morte. In questi due scritti Popper sostiene una tesi chiaramente e tradizionalmente agnostica (“Non so se Dio esista oppure no”, dice nell'intervista su Dio, p. 126, come si ripete da Protagora a Thomas Huxley), ma - e questo è molto importante - vi aggiunge una condanna ferma dell’idea (da sempre spudoratamente sfruttata dai ciarlatani che stanno a capo delle religioni) che sulla nostra ignoranza possa fondarsi una conoscenza positiva del mistero impenetrabile (cioè una qualche teologia rilevante e significativa). In altri termini, Popper delinea quella che il grande biologo Stephen Jay Gould, ne I pilastri del tempo (1999, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 2000, in part. pp. 13-14), chiamerà concezione dei “magisteria non sovrapponibili” (non-overlapping magisteria), ispirandosi esplicitamente al ben noto passo galileiano sulla scienza che ci insegna come va il cielo e sulla Bibbia che ci insegna come andare in cielo. Tuttavia è interessante osservare come la versione popperiana dell’agnosticismo possa resistere alle obiezioni devastanti cui la posizione di Gould è stata sottoposta nel 2006 da Daniel Dennett all’inizio del secondo capitolo di Rompere l’incantesimo (tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2007, in part. pp. 32-33) e soprattutto da Richard Dawkins nel quinto paragrafo del secondo capitolo de L’illusione di Dio (tr. it. Mondadori, Milano, 2007, pp. 60-67). La ragione di ciò sta nel fatto che lo scienziato Gould non ha alle spalle una filosofia della scienza consistente; viceversa, Popper, che è uno dei più importanti filosofi della scienza del XX secolo, può contare su un’impalcatura teorica che sottrae il suo agnosticismo al destino di vana e un po’ ignava banalità che grava in vario modo su quello di Protagora, su quello di Huxley e su quello di Gould. Come accennato, infatti, Popper sottrae alla sfera religiosa il pascolo del presunto mistero metafisico e le affida solo il compito di approntare prescrizioni morali e regole di condotta per la vita. Qui egli si basa sulla sua ben nota teoria della assoluta non deducibilità delle formule prescrittive (relative a come dovrebbero essere le cose, o a come vorremmo che fossero) dagli enunciati descrittivi (relativi a come sono le cose indipendentemente dalla nostra volontà e persino dalla nostra presenza come osservatori), e cioè della radicale indipendenza dei precetti etico-religiosi dalle proposizioni della scienza. E questo è il punto-chiave, perché su un altro piano consente di smascherare il grave errore logico di chi si aggrappa disperatamente a qualche risultato della scienza per sostenere le proprie convinzioni religiose. Com’è ben noto, questa operazione è messa in atto ancora oggi non solo da qualche bizzarro personaggio della parascienza (dai sostenitori del disegno intelligente, che cercano ad esempio di conciliare persino Darwin con il creazionismo, a uno come il nostro Zichichi, che presume di intessere un discorso “galileiano” su Dio e di teologizzare sul Big Bang) ma anche da qualche teologo, e persino dal più famoso e prestigioso di tutti, vale a dire l’attuale papa. Quante volte abbiamo sentito Ratzinger fare l’elogio della ragione scientifica illuminata da quella divina, o meglio della ragione scientifica in quanto e nella misura in cui è illuminata da quella divina? Secondo questo approccio, poiché la scienza fonda la propria validità sulla ragione umana, la quale a sua volta, quando è usata rettamente, è illuminata dalla ragione divina, che ne è il fondamento ultimo e la fonte, è evidente che se da un lato il successo della buona scienza (cioè della scienza buona) è garantito da Dio, dall’altro il successo della scienza garantisce la bontà del discorso razionale su Dio, in una circolarità vuota mascherata dall’argomentare ieratico e impressionante tipico di certa filosofia tedesca (di cui Ratzinger è erede e attento frequentatore). Ebbene, forte del suo fallibilismo, Popper può mostrare tutta la miseria di siffatti tentativi di attaccare la validità della teologia al tram del successo della scienza (è di questo che si tratta in fondo, fatta la tara degli insensati e sciocchi discorsi fumogeni di copertura che fanno discendere in primo luogo la razionalità scientifica dal Logos divino, perché ciò a cui mirano i capi delle chiese economicamente influenti è una legittimazione come interlocutori rilevanti e autorevoli nel dibattito pubblico sulle questioni etico-scientifiche), perché essi finiscono col trasformare la teologia in pseudo-scienza empirica, esposta al vento della falsificazione: «Supponendo che la scienza venga ritenuta come sostenitrice della religione, allora, se in una determinata fase del suo sviluppo risulta che essa è d’accordo con alcune dottrine religiose e noi aderiamo ad esse per questa ragione, dovremmo anche accettare la confutazione di queste dottrine da parte della scienza, se in una certa fase del suo sviluppo la scienza dovesse arrivare ad una concezione differente» (“Scienza e religione”, in Dopo "La società aperta", p. 118). 
La radicale incommensurabilità strutturale tra gli asserti (descrittivi) che costituiscono il corpus più o meno condiviso delle conoscenze scientifiche e quelli (prescrittivi) che definiscono le diverse e contrastanti credenze religiose non implica però che la scienza non possa intessere un discorso descrittivo ed esplicativo sulle credenze etico-religiose. Lo stesso Popper accennava già nel 1940 a questo punto importante quando osservava che «il campo delle nostre azioni pratiche, dei nostri obiettivi pratici, e in particolare delle nostre decisioni morali (…), tutte queste cose costituiscono un campo che in un certo modo non rientra in quello della scienza. Ovviamente, la scienza può sempre descrivere tali questioni. Lo scienziato può chiedere “Quali sono gli obiettivi del sig. Smith?”, ma la scelta di Smith del suo scopo è un’azione che, benché possa essere descritta dalla scienza, non può essere derivata da alcuna affermazione scientifica» (p. 121). Lasciare dunque un campo d’azione alla dimensione etico-religiosa, non significa murarla dietro l’ineffabilità, l’impenetrabilità e il mistero, perché se ci interessa comprendere le questioni di fatto che ci spingono al comportamento etico-religioso abbiamo il diritto di andare fino in fondo, se non addirittura la necessità e il dovere morale, soprattutto quando assistiamo alle derive violente e inumane del comportamento umano guidato dalla fede religiosa. Ecco perché è importante “rompere l’incantesimo”, per dirla con Dennett, il quale, nel contesto della discussione della tesi di Gould, osserva: «Non sto suggerendo che la scienza dovrebbe cercare di fare quel che fa la religione, ma che debba studiare (scientificamente) quel che fa la religione» (Rompere l’incantesimo, p. 32).
E dunque: meglio dei tentativi di falsificare gli asserti religiosi (leciti solo quando si ha a che fare con credenti che si aggrappano disperatamente alla scienza e scambiano i loro dogmi per questioni di fatto) è lo studio scientifico della propensione umana a sviluppare credenze religiose, cioè la riduzione della religione a fenomeno naturale dietro i cui ornamenti culturali e cultuali stanno precise disposizioni evolutive dell’io e del suo cervello, come ha suggerito Popper e come hanno contribuito a fare Dennett e Dawkins nei testi citati. In tal senso è assolutamente raccomandabile un volume come Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin di Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara, Codice Edizioni, Torino, 2008, dove le scoperte scientifiche e le riflessioni filosofiche più avanzate in questo campo sono discusse con rigore e chiarezza mirabili. 

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