«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


domenica 23 ottobre 2016

ECO E DAN BROWN, ABSIT INIURIA VERBIS




Inferno di Ron Howard, come operazione di trasposizione cinematografica di un testo narrativo, mi ha ricordato Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud. Entrambi i registi hanno potuto lavorare con la consulenza - e persino alla presenza (vedi foto) - dell'autore del romanzo ed entrambi, sotto l'apparenza di una pedissequa fedeltà di superficie, hanno modificato l'opera nel profondo, cambiando addirittura in modo clamoroso i finali.
Così come chi ha visto il film Il nome della rosa e non ha letto il romanzo può pensare erroneamente che anche in quest'ultimo ci siano un'uscita alla Teseo dal labirinto della Biblioteca, un rogo spettacolare di eretici con salvataggio in extremis della giovane "strega" e la morte del feroce inquisitore causata dalla sommossa popolare, allo stesso modo chi vede il film Inferno senza conoscere il romanzo può pensare erroneamente, per dirne solo una, che in quest'ultimo si parli di un pazzo che, per risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale, vuole decimare l'umanità diffondendo la peste o qualcosa di simile (e invece il romanzo parla essenzialmente di transumanesimo, di ingegneria genetica e di selezione artificiale post-darwiniana).
Naturalmente è ridicolo esigere la "fedeltà" quando persino gli autori dell'opera-fonte avallano il "tradimento", e quindi occorre sempre tenere presente che le due opere vanno godute separatamente, la caccia comparativa alle modifiche essendo solo un intrigante gioco per gli appassionati.
Prendiamo per esempio un punto del film (apparentemente) fedelissimo al romanzo: il volo di Vayentha dal soffitto del Salone dei cinquecento di Palazzo Vecchio. Ron Howard ha fatto del suo meglio e ci ha regalato una scena davvero spettacolare, riproducendo in gran parte quello che il lettore della corrispondente pagina del romanzo è portato a raffigurarsi.
Ma è davvero tutto qui? No, perché c'è quella frase di chiusura dell'episodio che non ha nulla a che vedere con la descrizione di una caduta mortale e che segna il confine invalicabile tra arte della parola scritta e arte dell'immagine in movimento: «Poi, con un brusco schianto, tutto il mondo di Vayentha svanì nel nulla» («Than, with a sudden crash, Vayentha's entire world vanished into blackness», cap. 48). Si può avere anche l'opinione peggiore sul romanziere Dan Brown, ma qui egli si ricollega alla grande tradizione della letteratura occidentale, racchiudendo in una sola frase un'intera visione del mondo. La si confronti, infatti, con la formula usata due volte da Virgilio (l'amichetto di Dante che da parte sua imitava Omero) per descrivere prima la morte di Camilla (XI, 831) e poi, chiudendo così l'Eneide, quella di Turno (XII, 952): «vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras». Le due formule, come si vede, esibiscono tutta la forza espressiva della parola poetica, perché in uno spazio ridicolmente breve riescono a riassumere intere concezioni filosofiche sul passaggio dalla vita alla morte.

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